21/12/2010versione stampabilestampainvia paginainvia



Dalla vita nomade alle miniere a cielo aperto: un reportage dalla Mongolia

Girano con un catino di plastica, generalmente verde, sulla schiena. Sembrano le note tartarughe mutanti dei fumetti. Per questo si chiamano "Ninja", anche tra di loro.
Tutto quello che avevo letto sui cercatori d'oro della Mongolia ne dava un'immagine univoca, fatta di povertà e degrado senza sfumature.
"Bolgia infernale" era la metafora banale e ricorrente. In realtà i Ninja sono una società complessa: diverse sono origini, storie personali e motivazioni; diversi l'organizzazione e gli strumenti di lavoro. Un mondo con le sue gerarchie, la più chiara rappresentazione di come in questo Paese i temi sociali, politici e ambientali siano strettamente connessi.

Uyanga, regione di Övörkhangai. Siamo a circa 450 chilometri a sud-ovest di Ulan Bator.
La miniera a cielo aperto è attiva dagli anni Novanta, quando era gestita dalla compagnia Erel. Il padrone della Erel, B. Erdenebat, è anche il fondatore dell'Ekh oron nam (partito della patria) e tra il 2006 e il 2007 è stato ministro dell'Energia. Nel medesimo periodo, il suo compagno di schieramento, I. Erdenebaatar - ex direttore generale della stessa compagnia - era a capo del dipartimento dell'Ambiente.

Nel 2007, una commissione parlamentare svolse un'inchiesta su alcuni siti minerari, tra cui Uyanga. L'allora ministro dell'Ambiente si rifiutò di partecipare ai lavori. Dall'inchiesta emerse che la Erel, dopo avere dismesso le attività, non aveva attuato le opere di riqualifica ambientale previste dalla legge mongola. Come era riuscita ad aggirarla?

Olzod Boum-Yalagch è coordinatore della Coalizione Verde (Nogoon Evsel) della Mongolia, un movimento che cerca di informare e responsabilizzare i cittadini sui temi ecologico-sociali:
"I costi per recuperare i siti ammontano circa al 30 per cento degli investimenti. Per cui, quando il filone è esaurito, le compagnie mettono in giro la voce di avere sfruttato solo il 60 per cento del giacimento: resta un buon 40. A quel punto accorrono i Ninja. Le compagnie dichiarano che i lavori di recupero dell'ambiente li hanno fatti ma poi questa gente ha di nuovo devastato tutto. Le autorità locali non controllano, hanno un budget limitato e per acquisire consenso funziona di più organizzare la festa in onore del campione di lotta del distretto".

Gli chiedo chi sono i Ninja.
"Povera gente che ha venduto o perso il bestiame oppure che è rimasta senza lavoro in città. Sono organizzati in piccole società da personaggi che gli forniscono l'attrezzatura e poi si prendono una percentuale".
"Si è mai arricchito qualcuno?" chiedo.
"Anche qui fa comodo alle compagnie spargere queste voci, ma non si ha notizia di alcun Ninja miliardario".

A Uyanga ci vado con Otgo, unica dipendente di Nomadgreen.org, il sito di Citizen journalism fondato dallo stesso Boum.
Al posto di polizia, il giovanissimo tenente Batpurev ci mette in guardia: "Pensate soprattutto alla vostra incolumità, non fermatevi di notte nei pressi della miniera, la criminalità è diffusa e non riusciamo a controllarla perché arriva gente povera da tutta la Mongolia e non si registra".

"Quanti sono i Ninja, tenente?"
"Di solito cinque-seimila, ma con l'estate aumentano". Ci lascia il suo numero di telefono in caso di emergenza.

La miniera sta a una decina di chilometri dalla cittadina. Nel percorrere la consueta pista sconnessa, si passa improvvisamente dal verde della steppa al marrone scuro degli enormi cumuli di fango frutto degli scavi, alternati a pozze d'acqua. Qui operano alcune compagnie di medie dimensioni, con scavatrici e cannoni d'acqua per separare la terra dall'oro.
Dall'inchiesta del 2007 emerse che la Erel pur dismettendo aveva conservato le licenze. Oggi le subappalta a una quarantina di piccole società che le garantiscono ulteriori introiti senza che muova un dito o una ruspa.
La più grande, manco a dirlo, è coreana.
La "Korean wave", in Mongolia, non si è esaurita come nel resto dell'Asia. Sull'onda delle soap-operas si diffonde un vero e proprio culto del Paese che i mongoli chiamano romanticamente "Solongos", arcobaleno, e che sembra essere una via di fuga al sandwich che li schiaccia tra l'odiatissima Cina e l'antico amore Russia.
"Stile coreano" strillano le vetrine dei parrucchieri e, dopo l'inglese, la lingua della penisola è la più studiata dai giovani.
Il business ne consegue: oltre all'economia simbolica, qui a Uyanga assume il concretissimo aspetto di un campo cintato con tanto di guardie armate in tuta mimetica all'ingresso. All'interno, le baracche delle maestranze e i macchinari.
Sulle colline intorno, fioriscono gli accampamenti di ger come margherite bianche in un prato. Sotto, acquitrini e buche dove brulica il popolo dei catini. Sono loro. Sono i Ninja.

Il nostro autista, Tumee, ha un amico, Cimba. è della zona e ci fa da guida. Ci porta su un cumulo di terra ormai divenuto collina dove da una ger vediamo uscire il tenente Batpurev con alcuni colleghi. Che ci fanno qui? Il padrone di casa, tale Ganbaa ci offre ospitalità per la notte, ho il sospetto che gliel'abbia chiesto il poliziotto, non so se per tutelarci o controllarci.
Ganbaa ha una piccola compagnia: una decina di persone in tutto e macchinari che oggi sono fermi perché un certo motore elettrico si è rotto. è un tipo sornione che scherza sulla mia italianità ("ti ha mandato il mio amico della mafia"), non vuole che faccia foto o riprese lì intorno e ogni volta che si fanno domande non di rito cambia discorso, buttandola sempre sul ridere.
Si lascia solo scappare che sì, i Ninja sono un problema per la sua attività. Ma non ci dice perché.

Andiamo in un accampamento di ger su cui volteggiano falchi e poiane, posandosi ogni tanto su pali e impalcature: non ne ho mai visti così tanti e così da vicino se non allo zoo. A fianco delle abitazioni fiorisce l'indotto Ninja. Come nelle vecchie Gold Town americane, dopo il cercatore d'oro arrivano i servizi: vendono acqua, cibo, c'è chi fa il barbiere e chi, dietro compenso, ti cura i figli mentre scavi. Altoparlanti costantemente in funzione offrono buuz, i ravioli, o zuivan, i tagliolini con carne e verdure.
A pochi metri, le buche rettangolari, piccole ma profonde, dove si svolge il lavoro quotidiano.
Incontro gente socievole, volti induriti dalla vita, bambini compresi, ma niente catini da queste parti. Ci fanno vedere una buca profonda venticinque metri da cui ogni tanto viene tirato su qualcuno con un argano azionato a mano da due ragazze sui vent'anni. Un tubo verde porta giù l'aria, sistema rudimentale ma che sembra funzionare. Per fare il pozzo usano un generatore che aziona una scavatrice. Lavorano in due turni che durano fino a 24 ore, senza interruzione. D'inverno, quando le temperature sono polari, costruiscono una ger attorno al buco, che si trasforma quindi in una sorta di tunnel sotto il pavimento di casa.

Un uomo di 45 anni si lascia riprendere e intervistare con il nipotino appena nato in braccio. Non è un disperato, dice che gli conviene comunque stare qui e, finché dura, tira avanti. L'unità di lavoro è la famiglia allargata, con lui c'è un altro uomo che ha perso tutti gli animali nello zud - l'ondata di gelo - di due anni fa. Non ha i denti, ma è qui per pagare l'università ai figli (naturalmente geologia), non per sopravvivere.
L'impressione è che questa gente non sia l'anello più debole della catena, hanno un futuro sul quale investire. Un signore con l'aria da maestro di provincia mi dice: "Non so se scriverai cose belle o brutte su di noi, ma quello che ci interessa è la tecnologia. Per favore, se avete tecnologia da condividere, fatecela avere, ci renderebbe più facile il lavoro".

L'uomo con il bambino in braccio mi fa vedere una pepita. è piatta, lunga circa mezza falange, la metto tra i denti, mi sembra friabile e non stringo troppo. Può valere circa 20mila tögrög (12 euro), aspettano di averne un numero consistente per pesarle e rivenderle ad alcuni personaggi che arrivano qui in jeep, comprano, e immettono l'oro sul mercato. Loro invece tornano giù nel pozzo.
A proposito, quando il filone si esaurisce, il buco resta lì. Però loro non usano mercurio o cianuro per purificare l'oro, almeno così dicono. Qui non è necessario separare il metallo giallo dalle rocce, è tutto fango, basta l'acqua.
Arriva un tipo palesemente ubriaco e insiste affinché vada giù nel pozzo. Scantono elegantemente dicendo che non credo di essere forte come uno di loro. In realtà ci vorrei pure provare, ma ho maturato una specie di allergia nei confronti degli ubriachi mongoli, specialmente se stanno all'argano a cui sono appeso venticinque metri più sotto.

Torniamo da Ganbaa, ha ospiti. Due giovani sotto la trentina, uno più corpulento che si lamenta perché la sua compagnia va male, l'altro, molto sicuro di sé, che parla con il piglio del boss. Non riusciamo a farci dire il suo nome, ma scopriamo che è a capo di una società che impiega almeno duecento persone ed è un tipo molto conosciuto a Uyanga e dintorni. Suo padre era un dipendente della Erel e ne ha raccolto l'eredità. Rivendica il fatto che i suoi lavoratori hanno salari compresi tra 800mila e 1 milione e 200mila tögrög, cifre senz'altro consistenti ma che non possiamo verificare. Apprendiamo tra le righe che qui nessuno ha il permesso di scavare, ma basta oliare gli ingranaggi giusti e la cosa si può fare.
Dissesto ambientale? "Niente affatto, noi prendiamo l'acqua da una sorgente sotterranea che nulla ha a che fare con il fiume".
Sta parlando dell'Onggi, lungo circa 435 chilometri che arriva fino al deserto del Gobi. Negli ultimi dieci anni si è gradualmente prosciugato e le associazioni ambientaliste riunite nell'Onggi River Movement (ORM) accusano proprio le attività minerarie.

L'acqua è preziosa in un Paese che rischia la desertificazione ma ha un valore simbolico particolare nella patria dei nomadi. La civiltà pastorale estensiva è la più efficiente su un suolo povero e impermeabile dove la pioggia scivola via e non nutre il terreno. Non si può coltivare, quindi si alleva. E il nomadismo è anche una forma di rispetto per la madre terra: sposto le mie greggi prima che la impoveriscano troppo. è una strategia che dalla notte dei tempi nutre l'essenza stessa della Mongolia, diventa rito, fatto simbolico.
Poi arriva la miniera, la terra viene suddivisa e delimitata, milioni di litri d'acqua sono deviati dal loro corso e sparati nel fango. è una ferita aperta, anche nello spirito.

Chiedo ai miei interlocutori se fanno il recupero ambientale, il riempimento delle buche, la nuova copertura con l'erba. Cambiano discorso.

Il quadro comincia a delinearsi.
In principio fu la Erel, poi gli avanzi del pasto vennero lasciati agli altri: fatti loro.
I più intraprendenti - compresi quelli con le conoscenze giuste - si sono comprati le licenze e spartiti il territorio: ecco le piccole compagnie. I personaggi che ho davanti sono i nuovi capitalisti "venuti su dal nulla", i protagonisti dell'accumulazione originaria in versione mongola. Gente che condivide la vita dura dei propri dipendenti ma che punta in alto e vede i Ninja come parassiti da tenere alla larga.
C'è poi la fascia dei cercatori d'oro organizzati in unità familiari, che condividono tecnologie semplici ma efficaci e si dividono il lavoro. Anche loro stanno oltre il livello di sussistenza, sono qui perché contano di accumulare un piccolo surplus da reinvestire in qualche modo.

Ma i Ninja veri?
Andiamo in un avvallamento che sfocia in una grande pozza, tanta gente e per ognuno un catino che pesca nell'acqua.
Incontriamo Baiarjargal, quarant'anni e due figli. Suo marito sta in basso a setacciare, lei non può più farlo: è semicieca e ha anche problemi alla schiena. Lavorava in una Ong che si occupa dei non vedenti, poi sono finiti i soldi. Mi dà il nome di un'associazione italiana che ha già collaborato con la sua, mi chiede di informarmi se sono ancora disposti ad aiutare la "gente come me". Avrebbe bisogno di un'operazione, ma non ha i soldi.
Ha ben chiari in testa i problemi di chi vive e lavora lì, tutti collegati tra di loro: primo, non c'è nessuna assistenza sanitaria; secondo, l'alcolismo diffuso; terzo, le violenze sessuali da parte degli uomini che bevono; quarto, le malattie che sessualmente si trasmettono. E si torna al punto numero uno, in un circolo vizioso che nessuno sembra voler spezzare. Eccola la degradazione, ecco l'anello debole della catena.
"Che futuro immagini per i tuoi figli?" chiedo. "Di sicuro non qui, adesso stanno in campagna dai nonni. Ma non ci sono soldi".
Arriva il marito con il frutto di una mattina di lavoro: un po' di pulviscolo dorato che le strappa un sorriso.

Scendiamo tra le buche, non sono profonde come quella vista precedentemente, pochi metri scavati con la vanga. Troviamo una famiglia allargata di tre uomini e cinque o sei donne di varie età, con bambini al seguito. C'è chi è qui da dieci anni, chi da sette.
"Le cose prima andavano bene, adesso no". Anche loro ci mostrano un po' di pulviscolo: "Ci facciamo 5-6000 tögrög (tra i 3 e i 4 euro) al giorno".
A pochi metri dalle loro buche, una scavatrice avanza. "Lo vedi? Quando qualcuno di noi trova l'oro, arrivano le compagnie e si prendono tutto".
Chiedo che cosa chiederebbero al loro governo: "In campagna elettorale fanno molte promesse ma poi se ne dimenticano". Un uomo con i capelli bianchi è molto esplicito: "Chiederemmo un lavoro con un buon salario", cioè "per una famiglia di cinque persone che vive in città, 500-600mila tögrög (300-400 euro)".
Non resisto e faccio una domanda di cui immagino già la risposta: "Avete mai pensato di organizzarvi e fare delle rivendicazioni collettive?".
Silenzio. Espressioni vuote. Volgono lo sguardo altrove.

LE FOTO

Gabriele Battaglia

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